morte di Danton al Politeama di Napoli

 

Nel momento in cui il teatro Mercadante, teatro stabile di Napoli,  si è fermato, per lavori di messa in sicurezza, la programmazione si è spostata in parte al Politeama, teatro storico di grande passato, ma di scarso presente, finora.

Quale migliore location per la morte di Danton di Mario Martone, che, in tre ore di rappresentazione, ha mostrato di aver bisogno davvero di una sala enorme e di un palcoscenico enorme.

Spettacolo lungo, considerando che alle nove di sera si è già un pochino stanchi e tutti parlano di cibo e magari prendono un paio di caffè, perchè il lavoro da seguire sarà impegantivo. E lo è.

Georg Büchner scrisse questo meraviglioso testo nel 1835. Lui, avviato agli studi di medicina, conobbe presto la passione per il pensiero rivoluzionario, scrisse infatti “il messaggero dell’Assia”, trattato che invitava la gente alla rivolta, e che confermava la sua simpatia per La società dei diritti dell’uomo, incontrata a Strasburgo, durante una fase dei suoi studi universitari.

Scritto in poco più di un mese di notte, La morte di Danton venne rappresentata solo nel 1902, a Berlino.

Büchner visse molto poco, nato nel 1813 morì nel 1837 di tifo, ma in questo tempo ebbe una forte propensione per il pensiero giacobino. Avvicina Danton a Ropesbierre e mette sullo sfondo i loro sostenitori e su uno sfondo ancora più allargato il popolo. Tifa per Danton e ce lo rende amico, ma di fatto predilige Ropesbierre per il suo rigore, forse, ma Martone fa altro ancora.

Martone firma anche la scenografia e infila 5 sipari vermiglio che si aprono e si chiudono per presentare gli eventi che si susseguono in simultanea. Un’unità di tempo e di azione. Un progetto cinematografico in cui è assolutamente possibile  chiudere ed aprire segmenti di azioni che si muovono  al contempo. Questo crea una sinergia nella trasmissione ideologica, che il regista scruta  nel testo ( a proposito, tradotto da Anita Raja). Il Terrore è onnipresente. Si percepisce, si annusa. La tagliente immagine di Ropesbierre/Pierobon ci spaventa: senza anima o solo molto fragile e quindi forzatamente determinato, lui, così anche fisicamente esile,  si incontra-scontra con il grande Danton/Battiston, fantastico corpulento veemente e lussurioso, ma ora sono diventati diversi: l’esperienza rivoluzionaria che li aveva uniti ora li separa. Un’ostinazione tirannica nell’uno,  una nota di pietas nell’altro.

Il nostro autore parteggia per il cinico, forse il nostro regista per l’umanista. I nobili ridacchiano e si spostano, alcuni restano fedeli fino al delirio della morte. Il popolo è influenzabile, ama le istanze di Ropesbierre che li aiuta, ma poi , come sappiamo, non esiterà a rivoltarsi contro di lui quando il medesimo popolo sarà manovrato da altri. La massa fa la parte peggiore. Manda a morte Danton ed i suoi amici, dopo averlo inneggiato, apprezzato, ma si era opposto al Comitato di salute pubblica. Come se queste altalenanze dei comitati e canvenzioni tra il 1789 ed il 1799 fossero stati veramente scelti plebiscitariamente e non piuttosto manipolati dalle menti dei poteri fino a quella, per un tempo iunsuperabile, di Napoleone Bonaparte.

Vari momenti sono di grande intensità, si intavolano  argomentazioni filosofiche. Lo fa Danton nella sua autodifesa. Lo fa Ropesbierre nella sua giustificazione della tirannide, lo fa Paine ( strepitoso Paolo Graziosi)che si trova in carcere per essersi opposto all’esecuzione del re, e tenta di spiegare e di piegare ragionamenti sull’esistenza di Dio o sulla morale politica, che trovano ostacoli proprio in una logica ottusa dell’umano, che intende far prevalere la premessa o il pregiudizio, al posto di un’armoniosa conseguenza dei fatti modellati dal naturale bisogno.

I sipari si aprono su una scena di banchetti e di licenziosità, poi  si propone una riunione del comitato, poi  un’ aula di tribunale,  ancora una camera dei piaceri, poi una prigione, quindi una scena domestica, ed infine una ghigliottina.

Folla vociante in ogni momemto topico. Tra il pubblico vagano mendicanti, donnine, condannati, conversatori.

Il regista  Mario Martone insiste su questi temi delle utopie.  Lo fa con Leopardi e la sua ribellione ai codici prestabiliti, lo fa in Noi credevamo dove in un film teatrale, a differenza di Danton che è un teatro cinematografico, stabilisce i criteri del fallimento dei moti risorgimentali.

Un progetto fondamentale, dal punto di vista intellettuale, nei nostri giorni, in cui, più che mai, abbiamo un urgenza di stabilire le tappe storiche delle “tentate” rivoluzioni, anche direi quella sessantotttina, in cui, dopo un moto iniziale chiaro ed urgente, tutto si confonde in ulteriori inserti che ne modificano le giuste intenzioni in quanto lasciano, in quella fase delicatissima emozionale euforica, uno spazio   ad innesti di malintenzionati, o almeno con  intenzioni diverse, anche reazionarie. E il popolo segue i mentori dell’istante.

Grande bisogno di intellettuali che pongano continuamente in essere la questione, ma poi a vedersi se gli intellettuali possano interferire con gli errori.  Sta di fatto che fino ad oggi i funesti approfittatori, ammantati di pseudorivoluzionarismo d’antan, si autoinvestono a Direttorio per far immaginare un popolo che diriga, ma sotto la “guida” di un Direttorio, appunto.

Vale tanto il Danton di Büchner visto da Martone anche se abbondante e impegnativo e a tarda ora. Vale tanto un invito a non dimenticare da cosa nasca il fallimento di una rivolta e la relativa volgarità dei tempi.

Costumi preziosi di Ursula Patzak e arredi sobri, tutto vira sui toni scuri, tranne a tratti una bianca veste di Iaia Forte, moglie di Danton. Le luci efficacissime di Pasquale Mari. Musiche protagoniste al pari di tutto il complesso scenico di Hubert Westkemper.

Gli artisti di grande valore che hanno affollato le scene: Paolo Pierobon eccellente nella veste di Robespierre,  un Fausto Cabra bravo nel ruolo del violento tribuno Saint-Just, il sempre grande Paolo Graziosi (Payne) e ancora Iaia Forte (moglie di Danton), Roberto De Francesco, Denis Fasolo, Roberto Zibetti, Giovanni Calcagno, Michelangelo Dalisi, Francesco Di Leva, Massimilino Speziani, Pietro Faiella, Gianluigi Fogacci, Ernesto Mahieux, Carmine Paternoster, Irene Petris, Mario Pirrello, Alfonso Santagata, Massimiliano Speziani, Luciana Zazzera, e con Matteo Baiardi, Vittorio Camarota, Christian Di Filippo, Claudia Gambino, Giusy Emanuela Iannone, Camilla Nigro, Gloria Restuccia, Marcello Spinetta, Beatrice Vecchione.

Produzione Teatro stabile di Torino. Al Politeama di Napoli fino al 7 maggio.

 

29/4/2017

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Gioia

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